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ATTENZIONE!

LA TRE GIORNI CONTRO LE ESPULSIONI È SPOSTATA PRESSO LA NUOVA OCCUPAZIONE IN CORSO REGINA MARGHERITA ANGOLO CORSO XI FEBBRAIO (BUS 3, 4, 11, 12, 16, 18, 50, 51, 57)

In vista della Tre giorni contro le espulsioni che si terrà a Torino dal 21 al 23 ottobre 2010, questo sito raccoglie alcuni materiali che possono essere interessanti se stai pensando di partecipare.

L’appello. Innanzitutto, puoi leggere l’appello che spiega le motivazioni di questa tre giorni. Visto che speriamo che l’iniziativa possa interessare a compagni di tutta Europa, l’appello è disponibile in diverse lingue.

Gli articoli. Per farti capire l’impostazione con la quale ci piace partecipare alla lotta contro le espulsioni, e di conseguenza un’idea di quel che vorremmo discutere durante la tre giorni, stiamo raccogliendo e pubblicando un po’ di articoli che descrivono iniziative avvenute in giro per l’Europa in questi ultimi anni e che ci sembrano degne di interesse. Nella prima colonna a destra troverai gli ultimi articoli che sono stati inseriti.

Le categorie. I centri di detenzione per senza-documenti (Cie, Cra, ecc.) possono funzionare solo perché sono al centro di una macchina più vasta e ramificata, con ingranaggi e punti deboli precisi. È proprio per focalizzare l’attenzione sui diversi momenti del funzionamento di questa macchina, e quindi sulle occasioni per incepparla, che abbiamo diviso gli articoli dell’archivio in queste quattro categorie, visibili anche nella barra qui sopra:

  • Prima del Cie: gli interventi contro le retate e i controlli di documenti, perché sia più difficile finire nei Centri.
  • Dentro al Cie: la complicità con le lotte e le rivolte nei Centri, perché sia più facile scavalcarne le mura.
  • Attorno al Cie: le iniziative contro chi vive sul business dei Centri, perché sia più difficile gestirli e costruirli.
  • Dopo il Cie: all’ultimo minuto, le iniziative per ostacolare i rimpatri.

Le tag. Per aiutarti ad individuare dentro all’archivio idee e spunti di lotta, ogni articolo è contraddistinto da almeno un paio di etichette o “tag” che indicano la lingua in cui è scritto ma soprattutto l’argomento della storia. Se, ad esempio, ti interessano tutti gli articoli scritti in italiano, clicca sulla tag “Italiano” nell’ultima colonna a destra; se ti interessano tutte le storie che riguardano gli aeroporti, clicca su “Aeroporti“, e così via…

La mail. Se hai delle domande riguardo alla tre giorni, o se vuoi mandare dei contributi per questo sito, puoi scriverci all’indirizzo next2010@autistici.org.

Buona lettura, e arrivederci a Torino!

Posted in Istruzioni.


Lotta ai Cpt nel Salento

I Centri di Permanenza Temporanea (CPT) oggi CIE ( Centri di Identificazione ed Espulsione) sono delle strutture create nel 1998 dal governo di centro-sinistra con la legge Turco-Napolitano, strutture che hanno lo scopo di recludere tutti gli immigrati clandestini, vale a dire coloro che vengono rintracciati sul territorio nazionale privi dei documenti in regola, per il tempo necessario ad accertarne la reale identità e provvedere quindi al decreto di espulsione. Il tempo massimo di internamento nei CPT è stato aumentato dalla legge Bossi-Fini sull’immigrazione del 2001 da 30 a 60 giorni e dal luglio 2009 gli internati nei CIE possono essere trattenuti fino a 180 giorni.

Perché i CPT come obiettivo di una lotta

La scelta di portare avanti una lotta continuativa contro i CPT in generale e contro quello salentino – il Regina Pacis – in particolare, è maturata nella necessità di concentrare a lungo termine le energie su un unico obiettivo, al fine di dare concretezza e tangibilità alla lotta stessa.

Tale lotta non si è sviluppata comunque in maniera esclusiva, né specialistica, né settoriale, poiché essa ha incorporato in sé la convinzione che i CPT e la repressione che ruota attorno ad essi, sono solo una delle espressioni della violenza statale e del dominio sul territorio, espressione che in Puglia ha trovato ampio spazio: essendo infatti questa zona da sempre terra di frontiera, non è un caso che su di essa sorgessero quattro CPT (attualmente ve ne sono tre). La presenza di strutture di questo tipo in Puglia e nel Salento ha fatto sì che la zona si trasformasse da terra di transito per le genti che arrivavano dall’est, e non solo, in zona di permanenza coatta, con un conseguente ed ovvio incremento della militarizzazione e del controllo sociale che, di fatto, ha coinvolto tutti.

Ammassare degli individui nei CPT ha comportato inoltre un notevole impatto mediatico sugli abitanti locali, con la conseguente creazione dell’immigrato come nemico nell’immaginario sociale e relativo scontro con gli sfruttati del posto. Questi infatti, cedendo alla convinzione di trovarsi di fronte ad una invasione di disperati, hanno teso ad identificare gli immigrati come una enorme riserva di manodopera a basso costo pronta a sottrarre loro il già scarso lavoro e come criminali sempre pronti a delinquere, avallando di fatto la propaganda razzista mediatica e statale che crea il capro espiatorio verso cui indirizzare le proprie ansie e le proprie paure per evitare di identificare accuratamente il reale problema. Con l’“allarme terrorismo” degli ultimi anni, il “pericolo arabo” e dello straniero in generale, tutto ciò è stato notevolmente amplificato.

Nella realtà dei fatti, occuparsi di lotta ai CPT, alle espulsioni e a tutto ciò che vi ruota attorno, non è una mera questione umanitaria, né una forma di democratico antirazzismo o di terzomondismo che identifica i migranti come nuovo soggetto rivoluzionario, ma significa riconoscersi e solidarizzare con individui che vivono le nostre stesse condizioni di sradicamento e sfruttamento ed iniziare ad attaccare una particolare struttura del potere. Non vi è dubbio infatti che la militarizzazione di interi quartieri, i rastrellamenti, i controlli sempre più serrati e le condizioni di vita e di lavoro sempre più odiose che vengono imposte, coinvolgano allo stesso modo sia gli immigrati – regolari o irregolari cambia poco –, sia gli sfruttati locali.

Quando e come è iniziata la lotta

L’istituzione dei CPT (oggi CIE) in Italia ha mutato la destinazione del centro Regina Pacis di San Foca, gestito dalla curia leccese; esso aveva trovato il pieno della sua attività, già un anno prima, in seguito all’arrivo in massa di profughi albanesi. L’edificio era stato utilizzato in precedenza come colonia estiva per bambini, sempre gestita dalla stessa Chiesa, rimanendo poi in stato di abbandono per diversi anni. Questo suo antico utilizzo, spiega il motivo per cui la struttura architettonica di questo centro, fosse molto diversa dalla quella dei CIE di recente costruzione o ristrutturazione, molto più simili a delle carceri vere e proprie. In virtù di ciò il Regina Pacis, ha subìto negli anni, così tante modifiche strutturali da non poter più nascondere la sua reale natura, nonostante lo sforzo dei suoi gestori, dei media e di vari politici, di continuare a spacciarlo per un centro di accoglienza; in continuo aumento sono state infatti le misure di sicurezza, militarizzazione e blindatura dell’edificio.

Lo stato di reclusione di coloro che sono passati dal centro di San Foca, è trapelato man mano all’esterno e questo ha creato sempre maggiore interesse e attenzione verso questo luogo.

Dal 2001 è iniziata così una prima diffusione di materiale di controinformazione teso a spiegare la reale funzione del Regina Pacis e la trasformazione, imposta dal potere economico e statale, del fenomeno migratorio da naturalmente presente sul territorio a fenomeno invasivo da arginare e reprimere. A ciò si sono accompagnate manifestazioni e presidi che hanno visto coinvolte anche altre realtà antagoniste, svolte sia sull’onda degli avvenimenti che riguardavano coloro che vi erano internati (esplosione di malattie contagiose, scioperi della fame, richieste di interventi al fine di non essere rimpatriati in zone di guerra o nelle quali rischiavano la morte, situazione denunciata in primo luogo dai curdi), sia in seguito all’allargarsi della questione a livello nazionale, sia per il verificarsi di vertici o incontri di capi di Stato che avevano come tematica il controllo dei flussi migratori.

Agli inizi del 2002, la diffusione di uno scritto in Italia da parte di alcuni compagni sulla tematica migratoria e la sua configurazione da parte della propaganda razzista, ha offerto lo spunto per l’avvio di una campagna costante e consapevole, che ha riconosciuto sul proprio territorio, ciò che è stato descritto a livello generale. Da allora, i banchetti informativi, i volantinaggi e i manifesti sono diventati uno strumento di primaria importanza, non solo per continuare a smascherare il ruolo di gendarme che il Regina Pacis svolgeva come parte fondamentale di un meccanismo di reclusione ed espulsione degli indesiderati stranieri, ma anche per contrastare la criminalizzazione dello straniero in quanto tale, nonché per spiegare il rapporto strettissimo tra economia e “clandestinizzazione” degli individui, col fine di ottenere ingenti quantità di forza lavoro altamente ricattabile (veri e propri schiavi moderni). Inoltre, essi sono stati strumento utile a levare il velo su quali fossero i reali interessi che muovevano la curia leccese, o in generale i vari enti, a gestire un posto del genere, interessi ovviamente in primis di natura economica, dato che lo Stato paga una cospicua retta giornaliera per ogni immigrato recluso, retta che varia a seconda dei CIE, e che per quello salentino era tra le più elevate. A conferma di ciò, vi è il fatto che la Fondazione Regina Pacis sia diventata negli anni una vera e propria multinazionale della “carità”, aprendo un centro in provincia di Mantova e ben cinque (l’ultimo inaugurato il 7/9/2004) in Moldavia, occupandosi praticamente di tutto, dal “recupero” delle prostitute ai bambini di strada ai profughi. In una intervista il direttore della Fondazione affermava che la Moldavia produceva ogni anno diecimila clandestini, a riprova di quanto essi fossero considerati merce.

Come è proseguita la lotta

I CIE non sono solo chi li gestisce. Per quanto banale, questo è un dato di fatto fondamentale, e se all’apparenza questi luoghi, e ciò che ad essi è collegato sembrano intoccabili ed inattaccabili, in realtà non lo sono, perché sono costituiti da strutture, uomini e mezzi. Questo dato elementare è stato sviluppato mediante la raccolta di informazioni su coloro che collaboravano con esso, aziende o singoli che vendevano la loro opera e i loro servizi, o che erano dipendenti a vario titolo della Fondazione: operatori, impiegati, medici, sbirri, responsabili, elettricisti, imprese fornitrici, e via dicendo. Accanto a tale attività, si è incrementato il numero di presidi di solidarietà sotto le mura del centro, in particolare in seguito all’intensificarsi delle rivolte interne e dei tentativi di evasione, riusciti o meno.

Nel corso del tempo è cresciuto anche il numero di persone coinvolte nella lotta, le azioni dirette e i metodi di critica. Il Salento ha quindi visto l’aumento di banchetti informativi, volantinaggi, attacchinaggi, scritte murali e dei momenti di contestazione in occasione di interventi pubblici dei responsabili del centro, o vertici istituzionali sull’immigrazione; oltre a ciò, anche il verificarsi di anonimi attacchi incendiari, e non solo, ad istituti di credito che gestivano il denaro della Fondazione o ad altre strutture coinvolte a vario titolo con essa.

L’osservazione e lo studio dell’operato svolto dalla curia leccese e dalla Fondazione Regina Pacis, hanno inoltre portato ad identificare delle attività collaterali che, pur se non direttamente correlate al CPT stesso, erano comunque portate avanti dalle stesse persone ed erano un anello della stessa catena, anello che, come nel caso del “Progetto Marta”, permetteva a costoro di darsi una immagine di benefattori, attraverso la raccolta e la distribuzione di cibo a senza casa, poveri e anche immigrati.

L’aspetto meno riuscito della lotta, è stato senza dubbio quello di non riuscire a coinvolgere i maggiori interessati dal problema CPT ed espulsioni, e cioè gli immigrati residenti nel Salento, nonostante alcuni tentativi; ciò è accaduto probabilmente sia per una nostra mancanza di continuità nel cercare rapporti con essi, sia per la loro difficile posizione per cui più facilmente ricattabili e perseguibili dalle forze di polizia.

Finalità della lotta

Chiudere il Regina Pacis. Questo è stato senza dubbio il principale obiettivo, e nonostante alcuni naturali momenti di rilassamento, non vi è stata tregua fino a che ciò non è avvenuto. Non è bastata la repressione manifestata in maniera intensa, attraverso fermi, denunce, cariche durante i presidi, botte ed arresti, a fermare la lotta, anzi; semmai essa ha solo aumentato il livello dello scontro e trascinato la Fondazione Regina Pacis al centro di polemiche sempre più aspre. Verso la fine del 2004 alcuni rappresentanti della curia leccese, diffusero la notizia che dal 2005 la Fondazione non intendesse rinnovare la convenzione con lo Stato italiano come CPT, ma che volesse trasformare la sua struttura in un centro di accoglienza. Al massimo però si poteva parlare di convertire il Regina Pacis in Centro di prima Identificazione, cosa comunque piuttosto strana dato che tali centri sorgevano principalmente in zone di arrivo dei migranti, e la Puglia non lo era più, come affermato anche dal sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano, e che un centro di questo tipo era già presente ad Otranto. In ogni caso i Centri di prima Identificazione, (la nuova legislazione ha cambiato nome e natura di questi centri trasformandoli in centri per richiedenti asilo – CARA), erano anch’essi un ingranaggio del perverso meccanismo che prevedeva la reclusione e la cacciata degli indesiderabili stranieri. Così, mentre molti “oppositori” più o meno istituzionali vantarono il proprio ruolo e la propria figura come fondamentale per la chiusura del Regina Pacis, è necessario affermare che tanti sono stati i motivi. Probabilmente infatti il gioco non valeva più la candela, e i problemi cominciavano a superare gli introiti di chi magari preferiva “investire” ormai lontano; a parte la notevole e costante pressione della lotta che comunque la curia leccese e il Regina Pacis indubbiamente hanno subito, è da considerare anche la cattiva immagine che costoro ormai avevano acquisito, sia per via di un processo in corso a loro carico, per pestaggi ed altro nei confronti di un gruppo di magrebini, sia per le numerose evasioni e rivolte che particolarmente nell’estate del 2004 hanno smascherato meglio di tutto la reale natura del centro e posto il problema dell’esistenza di quella struttura in quel particolare luogo, in una zona di mare ad alta vocazione turistica. Per tale motivo, anche il sindaco del comune su cui sorgeva la struttura era arrivato a chiedere che il CPT fosse spostato da San Foca, anche se certo non per questioni ideologiche o umanitarie. Ad ogni modo, le pressioni sono state tante, ed anche l’ala meno reazionaria della Caritas era contraria al fatto che la curia leccese gestisse un posto simile,

Dal 2003 al 2008, inoltre, è stato realizzato e diffuso un bollettino specifico sul tema delle espulsioni, dal titolo “Tempi di guerra”, frutto dell’incontro tra vari compagni in tutta Italia e che è stato strumento utile di raccolta dati, corrispondenze dalle lotte, approfondimento.

In seguito alla chiusura del Regina Pacis è stato costruito, sempre in Puglia, un nuovo CIE a Bari San Paolo, che sostanzialmente ha rimpiazzato il CPT di San Foca. Anche da questo posto, numerose sono state le fughe e i tentativi di fuga, nonostante la struttura, completamente nuova e sita presso la cittadella della Finanza, sia esattamente un carcere di massima sicurezza.

È insopportabile e intollerabile la presenza di tutti i CPT/CIE, questi moderni lager, la loro tetra invadenza ci spinge ad augurarci la loro totale distruzione e a fare il possibile, concretamente, perché ciò avvenga.

NOTA A MARGINE

Nel marzo 2005 il Regina Pacis ha definitivamente chiuso i battenti. Pochi giorni più tardi il suo direttore, don Cesare Lodeserto è stato arrestato con l’accusa di sequestro di persona a danno di alcune donne immigrate che si trovavano nel CPT per un programma di recupero delle prostitute previsto dalla legge sull’immigrazione. Da allora ha affrontato vari processi, con accuse, tra le altre, di truffa e violenza privata. Così la curia leccese ha pensato di fare di lui un missionario in Moldavia, dove la Fondazione Regina Pacis, gestisce numerosi centri. Per i suoi più acerrimi nemici, lo Stato ha riservato l’accusa di eversione dell’ordine democratico, così alcuni compagni hanno scontato alcuni anni di detenzione preventiva per fatti legati alla lotta contro il Cpt. Dopo la condanna in primo grado per associazione a delinquere e non per terrorismo, come chiedeva l’accusa, è prevista a breve termine la sentenza di secondo grado. Le condanne di primo grado hanno riguardato sei anarchici con pene comprese tra i 4 mesi e i 5 anni di reclusione.

Nemici di ogni frontiera

peggio2008@yahoo.it

ottobre 2009

Posted in Attorno al Cie.

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Impediamo le espulsioni

Le tecniche poliziesche per arrestare le persone senza documenti sono cambiate per rendersi meno visibili. Conoscere e scovare queste tecniche permette di opporvisi. Durante le retate l’obiettivo degli sbirri è di arrestare più persone possibile pur essendo il più discreti possibile. Questo permette loro di sorprendere quelli che vogliono controllare e di evitare le reazioni dei passanti. I poliziotti in borghese controllano sulla base dei tratti somatici un gran numero di persone, in un luogo ed un tempo determinati.

In strada questi dispositivi possono essere scovati anche grazie alla presenza di un camioncino. Generalmente è bianco, lungo, con un sistema di aerazione e parcheggiato non lontano. I controlli di identità hanno spesso luogo là dentro. Ma qualche volta gli sbirri fanno avanti e indietro con auto civette per condurre le persone arrestate al commissariato.

Nella metro le retate hanno luogo generalmente durante le ore di punta (soprattutto al mattino), nelle corsie dove si prendono le coincidenze (per es. Stalingrad, Barbès, La Chapelle…). Gli sbirri e i controllori possono agire insieme.

Le retate durano un certo tempo, questo permette di opporvisi. Il numero di urgenza serve ad informare, grazie ad una catena telefonica, la maggior parte delle persone del quartiere affinché possano venire.

Cosa fare in caso di retata?

Anche se non si è numerosi, è sempre possibile piazzarsi davanti agli sbirri, avvertire in modo discreto i passanti e far tornare sui propri passi le persone minacciate. Nel momento in cui si è sufficientemente numerosi, fare casino al fine di rendere visibile la retata.

E’ già accaduto che gli abitanti del quartiere scacciassero gli sbirri impegnati in una retata. E’ possibile domandare agli sbirri l'”ordine di requisizione”, cioè l’autorizzazione per la retata, il suo perimetro e la sua durata; questo può aiutarci ad organizzarci.

Cercare di sapere dove sono condotte le persone arrestate.

Molti arresti di persone senza documenti si fanno in modo diffuso; gli sbirri arrestano rapidamente 2 o 3 persone in luoghi mirati: nelle stazioni, davanti alle case, alle scuole, a certe banche (banca del Mali, Western Union..). E’ molto più difficile opporsi a questo tipo di arresti, che sono tuttavia i più frequenti.

Dopo l’arresto il miglior modo per evitare l’espulsione è quello di mostrare che la persona non è isolata. In un primo tempo si tratterà di molestare il commissariato, di riunirsi li’ davanti.. (Per consigli pratici e giuridici vedere la brochure: “Sans-papiers : s’organiser contre l’expulsion”, disponibile su internet: sanspapiers.internetdown.org).

Per impedire gli arresti, evitare le espulsioni è necessario creare un rapporto di forza con la polizia e la giustizia. Organizzarsi nelle scuole, nelle case, nei collettivi, nei quartieri, permette di non rimanere isolati e di difendersi collettivamente. Le lotte nelle scuole, specialmente tramite il RESF (Rèseau Education Sans Frontières), hanno permesso diverse volte di liberare delle persone senza documenti. I collettivi di persone senza documenti sono arrivati, tramite la loro mobilitazione, ad ottenere delle liberazioni. L’organizzazione intorno alle persone senza permesso di soggiorno della casa di via “Terre- au- curé” nel tredicesimo arrondissement di Parigi ha potuto darne prova: c’é stata una forte mobilitazione soprattutto durante i passaggi nei tribunali e sono stati sistematicamente fatti dei ricorsi. Su 115 persone arrestate soltanto 4 sono state effettivamente espulse.

Contro le retate e i controlli quotidiani le persone cominciano ad organizzarsi per creare dei legami di solidarietà nei quartieri a nord-est di Parigi.

Mobilitazioni in seguito ad una retata.

Nel febbraio 2008 più di un centinaio di residenti di una casa del tredicesimo arrondissement di Parigi sono stati arrestati durante una retata avvenuta nelle prime ore del mattino; una retata durante la quale centinaia di sbirri, bloccando un intero quartiere, lo hanno investito, distruggendo porte e diversi mobili e non lasciando a nessuno la minima possibilità di fuggire. Durante il pomeriggio ha luogo un corteo selvaggio, seguito il giorno dopo da una manifestazione più ufficiale.

Nei 2 o 3 giorni successivi i giudici della libertà e della detenzione (JLD) si sono dati il cambio giorno e notte in tribunale per convalidare il fermo delle persone senza documenti arrestate durante la retata. Alcune persone, residenti nel quartiere e solidali, si mobilitano allo stesso modo giorno e notte per essere presenti alle udienze. L’accesso alle sale dell’udienza è loro inizialmente negato poi, specialmente a causa dei disordini che ciò provoca all’interno del tribunale (parapiglia con gli sbirri che impediscono l’accesso, manifestazioni all’interno del tribunale, interventi vicino alla presidenza del tribunale), gli è alla fine concesso nel limite dei posti disponibili. Dopo diverse udienze e ricorsi parecchie persone senza documenti sono rimesse in libertà, vengono presi i contatti con coloro che vengono rinchiusi nel centro di Vincennes. Dal 27 febbraio all’8 marzo del 2008 diverse persone si sono mobilitate presso l’aereoporto di Roissy per impedire l’espulsione delle persone senza documenti della casa di via “Terre- au- curé” (dov’era avvenuta la retata).

Mercoledì 27 febbraio. Due espulsioni sono programmate per questa giornata sul volo Parigi-Casa Blanca della Royal Air Marocco. Noi siamo presenti all’aereoporto di Roissy da 14 ore per avvertire i passeggeri che due persone espulse saranno a bordo del loro aereo e che si opporranno alla propria espulsione. I passeggeri comprendono con quale accanimento lo stato è determinato ad espellere. La polizia di frontiera (PAF) distribuisce dei volantini ai passeggeri che precisano quali siano le pene massime nelle quali incorrerebbero se si opponessero all’espulsione. La polizia sequestra i cellulari e le macchine fotografiche dei passeggeri e sistematicamente cancella le foto ed i video fatti all’interno dell’aereo. Alla partenza gli sbirri rifiutano di obbedire al comandante, legalmente l’unico capo a bordo. Alla fine, in seguito alle loro proteste, tutti i passeggeri scendono dall’aereo e aspettano più di 3 ore sull’asfalto. Gli espulsi sono infine fatti scendere dall’aereo. Gli sbirri decidono di arrestare 4 passeggeri scelti a caso. Noi siamo riusciti a ritrovarli 2 giorni più tardi, dopo che avevano passato 48ore in stato di fermo ed una notte nel carcere provvisorio. Accusati di aver intralciato la circolazione di un aeromobile, saranno giudicati il 26 settembre 2008, con un processo che darà luogo ad una mobilitazione e durante il quale si beccheranno una multa con il beneficio della condizionale. Le due persone che rischiavano l’espulsione saranno liberate. Uno venerdi’ sera senza alcuna imputazione, l’altro sabato, con una convocazione davanti alla sedicesima camera del tribunale della Grande Istanza durante la quale sarà giudicato colpevole e beneficierà di un rinvio della pena.

Giovedi 28 febbraio. Sono previste 4 espulsioni, 2 al mattino e 2 alle sera. La mattina siamo presenti per avvisare i passeggeri e sensibilizzare l’equipaggio della compagnia del Mali scelta per effettuare l’espulsione. Sfortunatamente, senza che si sapesse, due persone espulse sono portate su un altro volo della compagnia Air Senegal, ammanettate ed immobilizzate, e rimpatriate a Dakar.

La sera sul volo Parigi-Casa Blanca le altre due persone non si manifestano presso i passeggeri ed il personale di bordo che avevamo avvisato e vengono espulse. In questa situazione, cioè senza che le due persone espulse abbiamo manifestato il loro desiderio di rimanere, i passeggeri ci diranno di non aver potuto intervenire.

Venerdi 29 febbraio. Sono previste 3 espulsioni. La mattina nessuno può recarsi in aeroporto. Una persona viene espulsa “scotchata” ed imbavagliata. La sera siamo in 2 per avvertire i passeggeri della Royal Air Maroc. Come accaduto mercoledì le persone espulse manifestano rumorosamente il loro desiderio di non partire. I passeggeri chiedono al personale di bordo di farli scendere. I poliziotti sono molto violenti con le persone espulse. Essi rifiutano di obbedire al comando di bordo. Dei rinforzi salgono sull’aereo e fanno scendere tutti i passeggeri, urtando il personale dell’aereo al suo passaggio. Alla fine, dopo 4 ore, le persone espulse sono fatte scendere dall’aereo e un passeggero viene arrestato e accusato di “intralcio alla circolazione di un aeromobile”. Uno dei due espulsi è ricondotto al centro per persone senza documenti. Alla fine sarà espulso più tardi. L’altro sarà liberato il giorno dopo con una convocazione per comparire il 17 aprile davanti al tribunale della Grande Istanza di Bobigny. Giudicato colpevole, beneficierà anche lui di un rinvio della pena. Il passeggero fatto scendere e accusato di “intralcio alla circolazione di un aeromobile” sarà rilasciato il 17 aprile 2008.

Sabato 8 marzo. Due persone della casa devono essere espulse sul volo della compagnia Air France, Parigi-Bamako delle 16 e 40. Noi siamo una quindicina per avvertire i passeggeri ed il personale di bordo. Sul posto la polizia distribuisce nuovamente volantini ai passeggeri per dissuaderli dall’intervenire. Sull’aereo, dal momento in cui le persone espulse protestano, i passeggeri chiedono al comandante di bordo di farli scendere. Inizialmente il comandante rifiuta poi di fronte all’insistenza dei passeggeri, che sono sempre più scioccati dal fatto che una persona espulsa sia picchiata dalla polizia, finisce per accettare. Quindi chiede alla scorta di far scendere le due persone senza documenti.

Il giorno dopo i due saranno liberati sotto il controllo giudiziario, intanto amici e familiari si sono mobilitati per procurare tutti i documenti necessari per l’assegnazione di una residenza in attesa del loro processo del 2 maggio. Nel frattempo uno di loro sarà regolarizzato.

Nel corso di questi giorni la mobilitazione delle persone solidali unita alla resistenza delle persone espulse e alla solidarietà dei passeggeri ha permesso di evitare 6 espulsioni. Ognuna di queste espulsioni fallite disorganizza la “macchina delle espulsioni” poiché comporta per lo stato di dover trovare in 32 giorni i modi (scorte, prenotazione di aerei, organizzazione interna) per espellere. In tutto, delle 116 persone senza documenti arrestate durante la retata nel quartiere, 5 saranno espulse.

La presenza negli aeroporti è importante per diverse ragioni:

Dà coraggio alle persone espulse che sanno che delle persone sono là, per e con loro, all’aereoporto. Informa i passeggeri che le persone ammanettate sul loro aereo sono persone senza documenti. Essi possono cosi’ anticipare la situazione. I passeggeri pronti ad intervenire sono più motivati dal momento che si tratta di un’azione collettiva. Azione collettiva che permette di sensibilizzare il personale su ciò che fa la compagnia per cui lavorano. Rende visibili queste espulsioni che lo stato e le compagnie aeree vorrebbero normalizzare ed integrare nel panorama quotidiano del viaggiatore. Queste espulsioni che si riescono ad impedire in confronto alle dozzine che hanno luogo ogni giorno sono più di una goccia d’acqua nell’oceano. Queste dimostrano che delle persone, senza mediatizzazione, senza l’appoggio di un sindacato o di un’associazione, possono andare contro un espulsione.

Non abituiamoci ai controlli di identità, agli arresti, ai centri per persone senza documenti, alle espulsioni… moltiplichiamo le azioni di resistenza e di solidarietà.

Posted in Dopo il Cie, Prima del Cie.

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Sapere con chi correre

“E sarebbe bene cominciare a sabotare la macchine delle espulsioni anche a partire da qui, nei quartieri, nelle città, sulle spiagge, evitare che il meccanismo parta sottraendo donne e uomini al dispositivo militare stile Gestapo. I modi sono tanti: dai mugugni urlati un po’ più forte, alle occhiate complici sulle retate in vista, alle segnalazioni di sbirri in borghese riconosciuti, fino a tutti i modi che ci vengono in mente: l’importante è saper riconoscere da che parte sta la libertà quando vediamo persone fuggire rincorse dalle divise.”

Scarica l’opuscolo Sapere con chi correre – Appunti sulle retate estive contro migranti e ambulanti

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Qualche riflessione in merito al processo di Vincennes

Adesso che la prima fase del processo ai 10 accusati dell’incendio di Vincennes è chiusa, abbiamo sentito il bisogno di scrivere due parole su quanto si è svolto nelle diverse città in merito a questo processo. Non che tutto sia ormai finito, al contrario, ma affinché si faccia qualche riflessione per continuare a lottare contro i centri di detenzione, contro la macchina delle espulsioni… e contro tutto il mondo che li produce.

Una mobilitazione lontano dai tribunali

Per prima cosa, era da tanto tempo che non si vedeva una mobilitazione degna di nota attorno al processo ad un gruppo di ribelli accusati di aver bruciato una galera. A Lione, a Reims, a Strasburgo, a Grenoble, ad Angers, a Marsiglia, a Poitiers, a Bordeaux, a Istres, a Dijon, a Parigi e a Besançon si sono moltiplicate manifestazioni, scritte, dibattiti, fuochi d’artificio, attacchinaggi, striscioni e azioni solidali. Tutto questo per parecchi mesi.
Tutti conosciamo infatti gli inconvenienti di una mobilitazione limitata al solo processo: essa concentra un gruppo di individui per un breve periodo in un luogo ostile e con dei ristretti margini d’azione, coinvolgendo solo coloro a cui piace questo tipo di mobilitazione e coloro che possono recarsi sul luogo in questione (in questo caso, il Palazzo di Giustizia di Parigi). Questa impostazione molto militante finge di ignorare che il tribunale non è che il luogo simbolico del giudizio, della sentenza, confondendo dunque il potere con la sua rappresentazione: in un processo notevolmente politicizzato come questo, non è più il giudice o la sala di tribunale che influenzano il risultato. Al contrario, un processo di questo tipo sottolinea la materializzazione dei rapporti di forza a livello sociale attorno alla questione dei centri di detenzione e delle loro rivolte, e alla questione della reclusione e della solidarietà in generale. Da un altro punto di vista, richiamando unicamente ad un modo passivo e centralizzato di mobilitazione, si tende a far credere che questa sia la buona ricetta per pesare sul verdetto finale (altrimenti, quale sarebbe l’interesse ad assistere allo spettacolo osceno di individui che si fanno fare a pezzi?), negando di conseguenza molti altri modi di agire. La questione della presenza massiccia ad un processo produce troppo spesso un ricatto affettivo, legando strettamente questa mobilitazione alla difesa giuridica degli imputati, una difesa che sempre più spesso è poco contestataria (e in quest’ottica, far casino e protestare in aula potrebbe nuocere agli accusati, come se non fossero il giudice e lo Stato ad avere la responsabilità se questo avviene). Questo ricatto, per fortuna, è durato poco, vista l’assenza da buona parte delle udienze di avvocati e di alcuni presunti incendiari che invece erano presenti i primi giorni. Si è allora potuto constatare una volta di più tutto l’interesse a moltiplicare le iniziative non centralizzate (nelle varie città, ma anche a Parigi), ma sempre collegate le une alle altre.
Un limite frequente, e non tra i meno importanti, risiede generalmente nell’assenza di prospettive concrete di lotta per esprimere la propria solidarietà e la propria rabbia, mentre questa volta è riuscito a crearsi uno spazio di lotta comune, che ha provato non solo la sua pertinenza al processo, ma anche le sue possibilità concrete: disturbare la macchina delle espulsioni. Tutti ricordiamo sicuramente le innumerevoli banche colpite un po’ dappertutto, ma sotto tiro sono finite anche diverse agenzie interinali, la Croce Rossa, Carlson Wagonlit, Bouygues o Air France: serrature manomesse, attacchinaggi e scritte sulle vetrine, incendi, occupazioni, colpi di martello… Se a questo si aggiungono i blocchi stradali durante le “passeggiate parigine”, le manifestazioni del 6 febbraio come a Nantes, quelle verso il centro di detenzione di Canet a Marsiglia, o tutte quelle, a volte anche notturne, che per due mesi hanno percorso le strade di Bordeaux contro la costruzione del Centro locale, c’erano tutti gli ingredienti per creare una mobilitazione che superasse il processo, dandosi degli strumenti pratici per esprimere al di là delle parole la volontà di distruggere i Centri e il mondo di frontiere e di sfruttamento che ne ha bisogno.

La macchina delle espulsioni

La questione relativa alla macchina delle espulsioni non può tuttavia ridursi ad un’ennesima campagna puntuale. Al contrario, essa stessa porta con sé delle possibilità che permettono di uscire dai tradizionali vicoli ciechi legati all’attivismo.
In passato abbiamo già visto svilupparsi, in effetti, delle campagne mirate (contro Ibis o Bouygues, per esempio) che si giustificavano con un dato preciso e puntuale, come la costruzione di nuovi centri di detenzione, e che hanno finito naturalmente per spegnersi da sole. Allo stesso modo, si vedono regolarmente passare nuove ondate di attivismo (attorno a contro-vertici, occupazioni, o a lotte esotiche), cioè delle attività che non solo sono separate dalle altre lotte e da ogni contenuto radicale, ma che soprattutto privilegiano una forma limitante, come lo è essenzialmente qualsiasi “forma” (dal black block dei contro-vertici, alle famose “aperture al quartiere” durante alcuni sgomberi, alle occupazioni o ai presìdi in appoggio a lontani combattenti spesso ambigui).
Non neghiamo che una lotta è per forza una cosa complessa, dal momento che cerca di incontrare altri potenziali complici ma senza rinunciare alle sue basi. In altre parole, la tensione tra l’apertura (con il rischio di perdersi) e la chiusura (con il rischio di isolarsi) è certamente una dialettica permanente. Ciò che al contrario ci sembra qui interessante sottolineare in merito a quello che si è prodotto un po’ dappertutto in questi mesi, è che una molteplicità di forme, senza gerarchia, non soltanto ha giustamente permesso a chiunque di portare il proprio contributo fino alla fine, ma ha anche consentito in diverse occasioni una presa dello spazio pubblico, anche nei momenti più tesi: basti pensare agli arresti e alle perquisizioni di Parigi, che hanno dato lo spunto immediatamente per una manifestazione, per un dibattito pubblico, ma anche per gesti autonomi di solidarietà. L’agitazione non è mai stata limitata a qualche specialista in carenza di azione, e neanche alle solite avanguardie che non han mai abbastanza truppe al proprio fianco.

Infine, e al contrario delle campagne che spesso si rivolgono al nemico per domandargli di rinunciare a qualche specifica pretesa, l’agitazione attorno al processo di Vincennes e contro la macchina delle espulsioni si è rivolta a tutti. Al posto di scegliere come interlocutori il potere o i media – vale a dire piuttosto che riprodurre le mediazioni che danno forma a questo sistema mortifero – si sono susseguite le manifestazioni nei quartieri, gli attacchinaggi, gli adesivi e le scritte che han coperto i muri e le vetrine, e che parlavano di distributori sabotati giusto vicino a loro, e ancora i dibattiti, tutto ha portato così un discorso diverso, senza filtri né concessioni. Un discorso rivolto direttamente alla strada, e non ai soliti ambienti di gente già convinta.

Libertà per tutti, con o senza documenti.

Una delle stramberie ricorrenti nei discorsi correnti, se si mette da parte l’incapacità di esporre le proprie idee (e l’amara sensazione che a tenerci insieme sia più una vaga contro-cultura alternativa che delle idee), è di pensare che se si è soli si è necessariamente isolati. Di credere dunque che le nostre idee e la nostra critica siano così strane e fuori contesto da non poter essere comprese da nessuno. Tutto ciò lo si può comprendere bene pensando tanto alla scritta “fuoco a tutte le prigioni” (ed è vero: le galere non bruciano mai, e poi così poca gente ha l’occasione di frequentarle, da lontano o da vicino), quanto al manifesto che spiega come una banca consegni dei clandestini alla polizia (ed è vero: a tutti piacciono le banche e la polizia). Tuttavia, ed è proprio questa una delle ragioni per intervenire nello spazio pubblico, il mondo non è costituito solo di schiavi e di cittadini. Se la nostra posizione è minoritaria – perché negarlo? -, la potenzialità della mobilitazione è quindi quella di spostarsi verso ciò che non è conosciuto, di incontrare delle persone complici lungo il cammino, di provocare delle reazioni e delle discussioni.
In questo senso, e al contrario dell’eterna tendenza che insiste per adattare il proprio discorso limitandolo affinché “le persone” (in senso astratto) possano capirlo, la critica che si è sviluppata in questi ultimi mesi ha tratto forza dal fatto di non indietreggiare, e dal fatto di ritrovare anche attraverso le forme utilizzate un inizio di coerenza con il proprio contenuto. Se non si mira a rendere più umani i centri di detenzione, ma a distruggerli, se ci si rifiuta di negoziare delle buone categorie di gente espellibile, cosa c’è allora di strano se degli sconosciuti condividono questa prospettiva e se bruciano dei bancomat di banche che fanno espellere dei sans-papiers?

Attaccando tanto lo Stato (contro le frontiere, per la libertà di circolazione), quanto il Capitale (contro lo sfruttamento e gli ingranaggi che si arricchiscono sulla macchina delle espulsioni), questa mobilitazione è riuscita non solo a non fermarsi davanti ai limiti propri ad ogni campagna o altro ambito di attivismo (lo sfinimento dovuto ai pochi risultati visibili, la sparizione/ristrutturazione della misura contestata, il “tradimento” dell’oggetto sostenuto), ma ha soprattutto aperto una via inserendosi nel quotidiano (i differenti ingranaggi li si incrocia ad ogni angolo di strada) e senza soggetto esterno specifico (il tizio incappato in una retata, il recluso, il lavoratore senza-documenti in sciopero). Insomma, una possibilità di lotta comune per tutti, al di là delle separazioni proprie del dominio, con un’aspirazione espressa bene da uno degli slogan venuto fuori in questi ultimi mesi: “Libertà per tutti, con o senza documenti”.

Questione di prospettiva.

Rifiutando un miserabile sostegno agli imputati di Vincennes – vittime arbitrariamente immolate che hanno la virtù di procurare un “supplemento d’anima” extra ai propri sostenitori – in favore di una solidarietà con, un primo passo importante era stato fatto lungo tutti i mesi precedenti al processo. Ciò ha immediatamente permesso a ciascuno di esprimersi a nome suo, a partire dalla sua propria condizione nella guerra sociale, senza più legarsi a particolarità degli imputati, e insistendo di più su quello di cui essi erano accusati (l’incendio di una prigione per stranieri). Superando poi la questione specifica del processo e delle sue date per inserire questa solidarietà in una prospettiva combattiva contro i centri di detenzione e poi contro la macchina delle espulsioni di cui questi ultimi fan parte, l’aria che mancava ad una miscela potenzialmente esplosiva alla fine ha cominciato a circolare. Essa ha offerto a molti, conosciuti o meno, la possibilità di sviluppare un contenuto legato a quello che è il nocciolo della contestazione: l’abbattimento del dominio e dello sfruttamento.

Ambizioso ma preciso, è questo contenuto di per se stesso a poter sfociare in una prospettiva anti-autoritaria. Invece che passare da un tema di lotta ad un altro, come ci suggerisce spesso il riflesso condizionato da attivisti (*), questa critica potrebbe al contrario inscriversi in una continuità (altri Centri sono in costruzione, la durata del trattenimento dovrebbe prolungarsi a 45 giorni, le frontiere esterne e interne si moltiplicano, come succede con i rilevatori di documenti falsificati negli uffici di collocamento), collegando tra loro i diversi aspetti della prigione sociale. E, lontano dal feticismo delle forme (per esempio quelle che si misurano solamente rispetto alla loro dimensione collettiva o a partire dal loro aspetto più o meno spettacolare), questa critica potrebbe ugualmente continuare approfondendo il suo contenuto reale, un perché che supera largamente la solidarietà anti-carceraria.

Quello che resta da questi mesi di mobilitazioni, la dinamica che si è creata al di là della questione del processo, è molto chiaro nei rapporti tra tutti quelli che han portato il proprio contributo. Ma è anche in questo metodo che si è affinato poco per volta, frantumando nello stesso tempo gli spettri dell’impotenza (come affrontare il mostro che abbiamo davanti?), dell’abitudine (andare esclusivamente vicino ai luoghi di potere, nei tribunali o sotto i muri delle prigioni, piuttosto che prendersi la strada, di giorno come di notte), della militanza (ridurre il mondo in due categorie: “loro”, i cattivi che reprimono, e “noi”, le loro vittime e individui solidali, piuttosto che affrontare una dimensione sociale anche basata su un meccanismo di partecipazione e di integrazione) e del quantitativo (non si può far niente se non si è in “tanti”, mentre il numero è una felice conseguenza frutto di incontri complici, ma non obbligatoriamente un inizio necessario per cominciare a lottare).
Un metodo semplice, certo, ma che porta già in sé un assaggio del mondo per il quale ci battiamo, e che può soprattutto servire come strumento più generale al servizio di una prospettiva combattiva che se la prenda con tutti gli aspetti del dominio (**).

Rispondendosi gli uni con gli altri, i diversi attacchi hanno mostrato un po’ dappertutto che il nemico non è intoccabile, che ha anche dei nomi e degli indirizzi. E anche se si crede di essere isolati nel proprio contesto, altri possono raccogliere il testimone e alzare la voce della solidarietà un po’ più lontano.
Infine, moltiplicandosi, le attività che si sono svolte in questi mesi di mobilitazione hanno anche mostrato attraverso la loro diversità che la forza è prima di tutto sociale. Che avendo la combinazione di tutti gli ingredienti senza centralizzazione né formalizzazione, con la penna come con il fuoco, con la voce come con i piedi, aumentano le possibilità di interrompere il corso della normalità e della pacificazione.

Bisogna raccogliere con cura quello che questo periodo può insegnarci, e continuare a far tesoro di questi passi maldestri, approfondendoli. Contro i centri di detenzione e tutte le forme di prigionia, contro la macchina delle espulsioni e tutti gli avvoltoi che ci mangiano la vita quotidianamente, per la libertà, con o senza documenti.

Anatole, 20 marzo 2010

(*) Per esempio la triste iniziativa del collettivo “Stop expulsions”, che il 24 marzo ha lanciato una campagna per “la fine della complicità di Air France con l’espulsione dei clandestini” fino all’8 luglio 2010, giorno del voto degli azionisti al suo Consiglio di amministrazione. Campagna cittadinista che si propone, ben inteso, di “fare ricorso ai giornalisti” e la cui “linea direttrice” precisa che è “fondamentale restare nell’ambito della non-violenza”.

(**) Per fare anche solo un esempio, lo sfruttamento – che è uno dei nodi della questione toccata qui – non è riducibile ai soli padroni (le multinazionali delle costruzioni e del lavoro interinale così come le mafie comunitarie illegali e i piccoli commercianti immigrati) e ai loro alleati (i cogestionari della manodopera, così come i sindacati o le autorità religiose). Come rapporto sociale lo sfruttamento si basa allo stesso modo sulla merce e sulla servitù volontaria, sfociando in compromessi in materia di pace sociale e di interessi condivisi tra sfruttatori e sfruttati. Compromessi e interessi che bisogna cercare di stroncare.

Fonte: Etrangers de partout, bollettino contro i centri di detenzione. L’articolo originale in francese è disponibile qui.

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Partageons une lutte

A ceux et celles qui veulent se battre pour la liberté
Contre la construction d’un nouveau centre fermé et tout ce qui cherche à nous imposer une vie pleine de frontières et de grillages

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Mai 2009. A Steenokkerzeel, les premiers travaux commencent sur le chantier de ce qui devrait devenir un nouveau centre fermé. Car l’Etat cherche à faire passer une immigration choisie ; une immigration adaptée aux besoins de l’économie. Et ceux qui ne rentrent pas dans les critères devront désormais être expulsés encore plus efficacement. Cette nouvelle prison (avec un régime de cellules individuelles) vise surtout à isoler ceux qui dirigent leur rage contre leurs matons (avec ou sans uniforme). Dans cette rage, nous voyons un point de reconnaissance et une invitation. En route pour une lutte contre ce nouveau centre fermé, contre toutes les frontières, contre toute autorité.

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PRENDRE SON ENVOL
Ou pourquoi nous n’abandonnerons pas le combat

Depuis quelques mois, à Zaventem, aux moteurs d’avions ronronnant viennent s’ajouter des engins de chantiers qui font de la poussière et du bruit. Car là, tout près du centre fermé 127bis, l’Etat construit avec l’aide de plusieurs entreprises en bâtiment, un nouveau centre de déportation. Outre son architecture extravagante, ce centre se distingue aussi sur d’autres plans des prisons pour sans-papiers existantes. Il servira par exemple à regrouper et enfermer les « cas dérangeants » avant de les déporter ; ceux qui ne se sont pas laissés jeter sans coup férir dans les bras de leur destin préprogrammé ; ceux qui seuls ou avec d’autres, au moins pour un instant, ont franchi la barrière de l’impossible – et se sont révoltés.

Le fait que l’Etat cherche ainsi à séparer les révoltés des autres sans-papiers, n’est qu’une des nombreuses « recettes » qu’il applique pour faire taire les « inadaptés » tout en réaffirmant les normes et hiérarchies. Il y a longtemps déjà qu’on nous apprend à interpréter le monde dans les termes du pouvoir. On nous a inculqué le nom et le sens des choses. Et plus on nous les a répétés, moins nous avons pensé à les remettre en question. Mais nous sommes désormais fatigués de tout ça. Fatigués de ce qu’on appelle obligations, comme le travail ou l’école. Fatigués de nous perdre dans des relations trop souvent maintenues par habitude. Nous en avons marre d’être pressés par la recherche constante d’argent et par la peur de le perdre. D’être enfermés dans une réalité qui colle des étiquettes sur les gens, les oblige à montrer leurs papiers, les pousse à s’identifier avec une nation ou une religion, les enferme dans une identité ( « homme » ou « femme », « jeunes-qui-traînent », « profiteurs » …). Une réalité où on fout les gens de côté s’ils sont différents, s’ils sont trop tristes, trop vieux, trop joyeux, s’ils transgressent la loi ou qu’ils refusent simplement d’accepter tout ça. Et plus ils nous font croire que ceci serait la vie, que tout ceci est normal, est à nous, ou qu’il n’existe de toute façon pas d’issue et qu’il est trop tard, plus nous oublions qu’un jour nous avons peut-être voulu être libre. Qu’il existe d’autres possibilités et que les attentes de la vie ne devraient connaître ni frontières, ni limites.

Mais il y aura toujours des individus qui ne se laissent pas submerger par l’abattement. Ceux qui savent que cette société, l’Etat, ses politiciens et ses représentants seront toujours des obstacles pour eux et leurs désirs. Voilà pourquoi la démolition de tous les murs érigés et protégés entre nous, est la seule perspective. Pourquoi il nous faut refuser de remettre notre vie et nos décisions dans les mains d’autres. Voilà pourquoi nous ne nous battons pas seulement pour un monde sans centres fermés, sans papiers et sans frontières, mais nous considérons cela comme faisant partie d’une lutte pour une vie où personne ne donne d’ordres et personne n’y obéisse. Où il n’y aurait plus de normes suffocantes et où nous pourrions donner du sens à notre vie avec nos propres idées. Nous voulons être libres, en sachant que tout est possible. Voilà pourquoi nous nous battons.

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ETRANGERS DE PARTOUT

L’ennemi aux frontières

Chaque année, des dizaines de milliers de réfugiés franchissent les frontières européennes. Beaucoup laissent aussi la vie en tentant de passer. Ainsi, la mer Méditerranée s’est transformée en fosse commune de boat people, tandis que la police et les trafiquants d’êtres humains dépouillent d’autres errants avant de les larguer dans le Sahara. Et quand des réfugiés finissent par poser le pied sur le sol européen, c’est une vie dans l’ombre qui attend la plupart d’entre eux. Ils amènent avec eux des histoires de guerre, de famine, de destruction de leur environnement, de persécution, de haine religieuse ou nationaliste.

Nombreux sont ceux qui, ici, ont peur de ces réfugiés : ils seraient « différents », ils parlent une autre langue ou ont d’autres habitudes. Mais peut-être les gens d’ici ont-ils surtout peur, parce que les histoires de misère qu’amènent ces réfugiés pourraient leur rappeler quelque chose. Ces histoires leur tendent un miroir dans lequel ils n’osent pas regarder, parce que la misère les guette aussi. Au lieu de voir en face les causes de cette misère, beaucoup de gens construisent une image d’ennemi à propos des immigrés « qui viennent nous piquer notre boulot et sont des profiteurs » – ce qui fait perdre de vue le véritable ennemi.

Partout dans le monde, les riches deviennent plus riches et les pauvres plus pauvres. Ces rapports capitalistes, cette économie qui réduit tout et tout le monde à des marchandises, rendent cette planète toujours plus invivable. Invivable parce que des centaines de millions de personnes vivent dans une pauvreté désolante. Invivable parce que des centaines de millions de personnes sont prêtes à s’entretuer pour un morceau de pain, pour un dogme religieux, une croyance à la Nation ou… pour un nouveau portable. Invivable parce que l’eau est contaminée par les activités industrielles, parce que ce que nous mangeons est cancérigène, parce que les endroits où nous vivons sont remodelés en fonction de l’économie et du contrôle. Ne mâchons pas nos mots: ces situations invivables pousseront toujours plus de gens à s’enfuir.

Et les îlots des « démocraties occidentales » renforcent donc leurs frontières. Des milliers de kilomètres de fils barbelés, des miradors, des gardes-frontières et des systèmes de détection comme à l’Est de l’Europe et en Grèce doivent protéger l’espace Schengen contre la misère du monde. Avec l’appui logistique et financier des Etats européens, des pays comme la Tunisie, le Maroc et la Libye construisent des camps de concentration pour enfermer les refugiés, avant même qu’ils n’arrivent aux côtes de l’Europe sur des bateaux branlants.

L’ennemi à l’intérieur

Mais l’Etat ne se renforce pas seulement contre les « ennemis extérieurs ». Pour protéger les intérêts des riches et des puissants, il doit s’assurer que les exploités, les pauvres continuent à accepter l’ordre existant. Au cours de la lutte des classes et parce que pour contrôler, la carotte marche parfois aussi bien que le bâton, les Etats occidentaux ont développé un aspect social, essayant de nous vendre la fable du médiateur entre les riches et les pauvres. Avec l’aide des syndicats et des partis, ils ont fait en sorte que ceux qui avaient tout à gagner à un bouleversement total restent finalement dans le rang.

Mais cette époque est peu à peu en train de rendre le dernier soupir. Tandis que la lutte sociale s’affaiblit, l’Etat prépare la fin de la social-démocratie, la fin du « temps des cadeaux ». Car les profits doivent continuer à augmenter et ceci n’est possible qu’au détriment des pauvres. Petit à petit, les acquis sociaux sont abolis, la chasse aux chômeurs s’intensifie, les filets de sauvetage sont liquidés, la concurrence sur le marché du travail (la concurrence entre les travailleurs eux-mêmes) est accrue par une flexibilisation toujours plus poussée de l’économie et des contrats de travail. Et au cas où tout le monde ne serait pas d’accord, il y a l’extension générale du contrôle social avec des quartiers entiers sous vidéosurveillance, avec toute une série de nouveaux services de contrôle et de police et l’utilisation de moyens de surveillance et répressifs toujours
plus sophistiqués.

Il est sûr que la pauvreté s’étendra, que le nombre de pauvres augmentera, et pas seulement dans des contrées qui nous paraissent bien lointaines, mais ici aussi. Ils disent que « la barque est pleine » et en fait ils veulent dire qu’« il faut jeter des gens par-dessus bord ».

Tous pauvres, mais tous différents ?

L’Etat fait donc tout pour convaincre les gens que ce seront d’autres (au moins, avant eux) qui passeront par-dessus bord. Et cette illusion apaise maintes personnes. Sur la base de documents d’identité et de cartes de séjours, l’Etat applique une hiérarchie sociale entre les pauvres. Il crée toute une série de niveaux intermédiaires avec différents statuts accordés selon les besoins de l’économie (dépendant de contrats de travail, du manque de main d’oeuvre dans certains secteurs, etc). La régularisation récente, obtenue après des années de protestations de sans-papiers et d’autres, rentre entièrement dans ce cadre et est donc loin d’être une « victoire ». Certaines catégories de sans-papiers seront régularisées sur critères … avec pour conséquence implicite et inévitable que tous les autres devront ficher le camp. Voilà comment l’Etat répond à ceux qui prétendent résister tout en continuant à déléguer à un pouvoir qui les dépasse le fait de résoudre leurs problèmes. Tant que celles et ceux qui veulent lutter contre l’état actuel des choses continueront à aller sur ce terrain par excellence de la politique, à négocier et à dealer avec l’Etat, à parler la langue de l’ennemi et à se fier à la fameuse représentation politique (au parlement par les partis, dans la rue par les syndicats), ils n’obtiendront que de la poudre aux yeux. Une lutte qui s’oppose à la hiérarchie entre les pauvres et qui s’attaque aux frontières, ne peut donc que s’opposer à toute politique, à toute forme de gestion de la population.

Tandis que la pauvreté touche toujours plus de gens, la glace de la paix sociale commence à se fissurer. Certains ne se satisfont plus d’être le pigeon toute leur vie, de mener une existence privée de sens en fonction d’une économie qui « rapporte » toujours moins et d’un Etat qui place sous contrôle tout et toujours plus. Des révoltes éclatent ici et là et des coups sont rendus (comme lors des émeutes dans différents quartiers bruxellois, lors des quelques grèves sauvages dans les entreprises, lors des nombreuses mutineries dans les prisons et les centres fermés ces dernières années, comme avec la hausse impressionnante du vol à l’étalage cette année..). Cependant, toutes sortes d’idéologies autoritaires (à base de nationalisme, de fondamentalisme, de racisme,…) tentent de faire leur beurre de cette situation de mécontentement social. Ces idéologies offrent une alternative aussi autoritaire et opprimante que le monde tel que nous le vivons aujourd’hui. Face au spectre d’une guerre de tous contre tous, nous voulons la guerre sociale des exploités contre tous les exploiteurs, des opprimés contre tous les oppresseurs. Parce que payer un loyer à un propriétaire « belge » ou « immigré », se faire menotter par un flic catholique ou musulman, travailler pour un patron blanc ou noir ne changera rien à la misère dans laquelle nous vivons.

Une autre manière qu’utilise l’Etat pour diviser, consiste à présenter chaque question sociale, chaque problème et chaque lutte comme séparés les uns des autres et pouvant donc être résolus sans toucher aux fondements. L’Etat a tout intérêt à ce que la lutte contre les centres fermés glisse vers une revendication de régularisation de sans-papiers, tandis que la migration, justement, n’est pas le libre choix de voyager, mais un mouvement forcé, provoqué par les besoins de l’économie, les guerres entre Etats et groupes de population… Les centres fermés ne sont donc pas une aberration honteuse, mais font intégralement partie des rapports autoritaires et capitalistes qui dominent ce monde. Les soi-disant « centres ouverts » en disent longue sur cela : l’Etat concentre les demandeurs d’asile dans de véritables camps en attendant le résultat de leur demande d’asile. Ainsi il les tient séparés du reste de la population et facilite la sélection de ceux à garder et de ceux à jeter. Les gens donc sont toujours plus enfermés pour ce qu’ils sont et moins parce qu’ils auraient commis tel ou tel délit. Et pour chaque catégorie, il y a une prison spécifique : les centres fermés pour illégaux, les prisons pour les pauvres, les « centres ouverts » pour les demandeurs d’asile,… Refusons donc dans la lutte les séparations entre les différentes formes d’enfermement que l’Etat essaye de nous fourrer dans la tête.

La question des centres fermés, des déportations et des permis de séjour ne concerne donc pas que les sans-papiers. La concentration de sans-papiers dans les centres fermés et ouverts n’est qu’un pas dans la guerre croissante contre tous les pauvres, peu importe leur origine, peu importe leur couleur de peau.

Un nouveau centre fermé

En mai 2009, l’Etat a lancé la construction d’un nouveau centre fermé à Steenokkerzeel. D’un côté, ceci est une réponse claire aux multiples révoltes, mutineries et évasions qui ont eu lieu ces dernières années dans les centres fermés. Cela rappelle la manière dont il a réagi aux mutineries dans les prisons belges il y a trois ans: en construisant de nouvelles prisons, plus modernes et mieux sécurisées et en ouvrant deux modules d’isolement pour les « prisonniers rebelles ». Le nouveau centre servira aussi à enfermer les « récalcitrants ». Ils vont y appliquer un système de cellules individuelles et de cachots pour tenter d’écraser toute forme de rébellion.

D’un autre côté, l’Etat veut aussi accroître le rendement de sa machine à expulser en créant une plus grande capacité d’enfermement. En même temps qu’il régularise une partie des sans-papiers, il se facilite la tâche pour expulser ceux qui ne rentrent pas dans les critères. Tout comme les autres Etats européens, la Belgique veut aller vers une « immigration choisie » avec des permis de séjour entièrement adaptés aux besoins de l’économie. Exactement comme nous tous, les immigrés ne sont, aux yeux des patrons et des politiciens, que des matières premières qui peuvent être utilisées, négociées ou jetées à la poubelle. La seule différence, c’est qu’ils le font toujours plus ouvertement.

* * *

ET ALORS, MAINTENANT QUOI ?

Nous voulons être libres.
Parvenus à la conclusion qu’aucun gouvernement n’aura jamais rien à voir avec la liberté, il nous reste deux choix. Aller nous coucher, résignés au fait que rien n’a de sens et que nous sommes condamnés à vivre comme des morts. Ou sauter, dans l’inconnu, sans avoir toutes les réponses en poche mais poussés par des désirs qui n’acceptent plus de mensonges.
En route vers quelque chose qui est à nous…
Avant tout, nous voulons en finir avec l’idée que nous sommes coincés dans nos possibilités d’agir contre la misère qui nous entoure. Parce que nous n’aurions aucune prise sur la manière dont le monde est fait, parce que tout se déroulerait bien au-dessus de nos têtes.
Ce sentiment habituel d’impuissance qui peut nous paralyser quand nous commettons l’erreur de concevoir le système qui essaye de nous enfermer comme le produit d’un cerveau diabolique omnipotent, qui nous transforme en pions inertes.
Ce sentiment, nous voulons le laisser derrière nous une fois pour toutes.
Tout change quand nous osons regarder la réalité en face et que nous trouvons le courage de nous concevoir nous et les autres comme des individus qui font des choix. Parce qu’alors il devient clair que cette tragicomédie n’aura pas de fin tant que les acteurs continueront à jouer leur rôle.
Rien ne se perpétue de soi-même. Même une chose aussi monstrueuse que la machine à déporter ne peut pas continuer à tourner toute seule.
Sous notre nez, les politiciens décident de construire et de financer des centres fermés. Des entreprises comme Besix, Valens et ISS Cleaning font un paquet d’argent avec leur construction et leur maintenance. Les directeurs et les matons des centres, mais aussi les assistants sociaux et les docteurs qui y travaillent, peu importe leurs bonnes volontés, choisissent de se consacrer au bon fonctionnement de ces prisons, au lieu de les remettre en question fondamentalement. Les compagnies aériennes assurent les déportations. Les soi-disant « centres ouverts », gérés par la Croix Rouge et Fedasil, essayent de contrôler les allers et venues des sans-papiers et collaborent étroitement avec l’Office des Etrangers et les centres fermés.
Si nous regardons plus loin que le bout de notre nez, nous voyons que les engrenages de la machine sont nombreux. Des organisations caritatives comme Caritas International promeuvent le « retour volontaire » et donnent des primes quand les sans-papiers acceptent de se casser. Les avocats les dupent, leur extorquent plein d’argent en leur faisant de fausses promesses. Les flics font des rafles, par exemple dans les transports publics avec l’accord des entreprises STIB et De Lijn, voire leur collaboration active lors des contrôles de titres de transport qui permettent aussi d’arrêter des sans-papiers. De même, les inspections du travail écument les cafés, les magasins de nuit et les chantiers, main dans la main avec l’Office des Etrangers. Dans les maisons communales, des bureaucrates remettent permis de séjour et cartes de travail et constituent des bases de données relatives aux demandeurs d’asile. Les marchands de sommeil, qui ne savent que trop bien dans quelle situation précaire se trouvent les locataires sans papiers, en profitent pour leur soutirer encore plus de fric. Finalement, il y a aussi ces bons citoyens qui n’hésitent pas à dénoncer quand ils en ont l’opportunité.
Et alors, maintenant quoi ? Nous pouvons briser le silence du consentement…
Les choix ont des conséquences ! Si nous voulons lutter contre la machine à déporter, il ne suffit pas de juste savoir qui y collabore… Il faut en faire quelque chose. Nous pouvons rendre visite à ceux qui refusent d’assumer leurs responsabilités, les harceler et leur rendre la tâche difficile. Nous pouvons repeindre leurs murs, saboter leur bordel et détruire leurs infrastructures.
Tout ceci pourrait dégager de la force si, en chemin, nous réussissons à ne pas oublier que la machine à déporter n’est pas quelque chose de séparée. Qu’une société basée sur l’autorité, le travail et l’exploitation aura toujours besoin de prisons et de centres fermés, aura toujours besoin d’enfermer et d’opprimer. Et la lutte que nous portons dans nos coeurs, c’est une lutte contre toute forme d’oppression. Donc, crions-le bien fort : il ne s’agit pas des aberrations d’un système, mais de tout, de toute la vie, de nous tous ! Et portons ceci avec nous, à chaque pas que nous faisons contre la machine à déporter et tout ce qui nous empêche d’êtres libres. Développons une solidarité avec ceux qui, à partir d’un même désir de liberté, choisissent d’attaquer ce qui les maintient enfermés ; une solidarité capable de briser l’isolement qui tend à éteindre toute tentative de nous réapproprier nos vies. Une solidarité qui peut s’exprimer de tant de manières. Entraidons-nous quand il le faut, défendons nos idées et partageons nos révoltes.
Partageons une lutte…
Des anarchistes

Textes parus dans un quatre-pages en français et en néerlandais, http://ennemisdesfrontieres.blogspot.com/2009/12/ceux-et-celles-qui-veulent-se-battre.html

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La Misericordia, un nome che dà “sicurezza”

Dal 2005 la Misericordia di Modena gestisce i Centri di identificazione ed espulsione di Bologna e Modena. Appartiene a quella congrega di enti così caritatevoli da essersi assunti l’“onere” di “ospitare” gli immigrati, per la “sicurezza” loro e di tutti gli italiani, «credendo di fare del bene» come ha detto Daniele Giovanardi, il presidente della confraternita modenese. Anni fa, lo stesso Giovanardi riuscì a dire che i Cpt (ora Cie) erano “alberghi a cinque stelle” e che non ci si doveva fare poi tanti scrupoli se gestirli poteva significare riuscire ad acquistare “un’ambulanza in più” (la Confraternita delle Misericordie ha il suo bravo servizio 118 di pronto soccorso). In effetti, più di 70 euro al giorno per ogni recluso fanno negli anni un bel gruzzoletto.

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Condividiamo la lotta

A tutte e tutti coloro che vogliono battersi per la libertà.

Contro la costruzione di un nuovo centro per persone senza documenti e contro tutto ciò che cerca di imporci una vita piena di frontiere e di gabbie.

Maggio 2009. A Steenokkerzeel iniziano i primi lavori nel cantiere che dovrà diventare un nuovo centro per senza-documenti; perché lo Stato cerca di far passare un’immigrazione “scelta”, un’immigrazione adattata ai bisogni dell’economia. Coloro che non rientrano nei criteri adottati dallo Stato ormai dovranno essere espulsi ancora più efficacemente. Questa nuova prigione (che funziona a regime di celle individuali) mira soprattutto ad isolare coloro che dirigono la loro rabbia contro i loro secondini (che abbiano o meno l’uniforme). In questa rabbia noi vediamo qualcosa in cui riconoscerci ed un invito:  in cammino per una lotta contro questo nuovo Centro, contro tutte le frontiere, contro tutte le autorità.

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Ballades

A partir de janvier 2010, une bonne dizaine de « ballades » à parcouru la ville de Bruxelles (Les Marolles, Anderlecht, Molenbeek, Saint-Gilles, Schaerbeek, Saint-Josse,…). Lors de ces petites « manifestations » sauvages contre les centres fermés, des tracts sont distribués, des affiches collés et des slogans peints sur les murs et ont souvent donné lieu à des belles discussions. Voici un des tracts diffusés lors d’une de ces « ballades ».

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Passeggiate

A partire dal gennaio del 2010, una buona decina di “passeggiate” hanno percorso la città di Bruxelles (Les Marolles, Anderlecht, Molenbeek, Saint-Gilles, Schaerbeek, Saint-Josse…). Durante queste piccole manifestazioni selvagge contro i centri di detenzione sono stati ditribuiti volantini, incollati manifesti, dipinti slogan sui muri e ci sono state anche delle belle discussioni. Ecco uno dei volantini distribuiti in una di queste occasioni…

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Il “fazzoletto rosso”

Il fazzoletto rosso è un codice, un segnale d’allarme, uno sguardo d’intesa, un aiuto insperato nel momento del pericolo. Il fazzoletto rosso non è la testimonianza simbolica della tua avversione al razzismo dilagante.  Ovvero non è – tanto per intenderci – una di quelle centinaia di migliaia di “bandiere della pace” appese ai balconi contro la guerra, che la guerra non l’hanno minimamente disturbata, che nessuno hanno salvato dai bombardamenti. Il fazzoletto rosso indica una retata in corso nei paraggi, e allo stesso tempo la tua disponibilità ad aiutare gli stranieri senza permesso di soggiorno a non essere fermati, controllati, arrestati, rinchiusi in un Centro per essere identificati e infine espulsi.

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Posted in Prima del Cie.

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