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Lotta ai Cpt nel Salento

I Centri di Permanenza Temporanea (CPT) oggi CIE ( Centri di Identificazione ed Espulsione) sono delle strutture create nel 1998 dal governo di centro-sinistra con la legge Turco-Napolitano, strutture che hanno lo scopo di recludere tutti gli immigrati clandestini, vale a dire coloro che vengono rintracciati sul territorio nazionale privi dei documenti in regola, per il tempo necessario ad accertarne la reale identità e provvedere quindi al decreto di espulsione. Il tempo massimo di internamento nei CPT è stato aumentato dalla legge Bossi-Fini sull’immigrazione del 2001 da 30 a 60 giorni e dal luglio 2009 gli internati nei CIE possono essere trattenuti fino a 180 giorni.

Perché i CPT come obiettivo di una lotta

La scelta di portare avanti una lotta continuativa contro i CPT in generale e contro quello salentino – il Regina Pacis – in particolare, è maturata nella necessità di concentrare a lungo termine le energie su un unico obiettivo, al fine di dare concretezza e tangibilità alla lotta stessa.

Tale lotta non si è sviluppata comunque in maniera esclusiva, né specialistica, né settoriale, poiché essa ha incorporato in sé la convinzione che i CPT e la repressione che ruota attorno ad essi, sono solo una delle espressioni della violenza statale e del dominio sul territorio, espressione che in Puglia ha trovato ampio spazio: essendo infatti questa zona da sempre terra di frontiera, non è un caso che su di essa sorgessero quattro CPT (attualmente ve ne sono tre). La presenza di strutture di questo tipo in Puglia e nel Salento ha fatto sì che la zona si trasformasse da terra di transito per le genti che arrivavano dall’est, e non solo, in zona di permanenza coatta, con un conseguente ed ovvio incremento della militarizzazione e del controllo sociale che, di fatto, ha coinvolto tutti.

Ammassare degli individui nei CPT ha comportato inoltre un notevole impatto mediatico sugli abitanti locali, con la conseguente creazione dell’immigrato come nemico nell’immaginario sociale e relativo scontro con gli sfruttati del posto. Questi infatti, cedendo alla convinzione di trovarsi di fronte ad una invasione di disperati, hanno teso ad identificare gli immigrati come una enorme riserva di manodopera a basso costo pronta a sottrarre loro il già scarso lavoro e come criminali sempre pronti a delinquere, avallando di fatto la propaganda razzista mediatica e statale che crea il capro espiatorio verso cui indirizzare le proprie ansie e le proprie paure per evitare di identificare accuratamente il reale problema. Con l’“allarme terrorismo” degli ultimi anni, il “pericolo arabo” e dello straniero in generale, tutto ciò è stato notevolmente amplificato.

Nella realtà dei fatti, occuparsi di lotta ai CPT, alle espulsioni e a tutto ciò che vi ruota attorno, non è una mera questione umanitaria, né una forma di democratico antirazzismo o di terzomondismo che identifica i migranti come nuovo soggetto rivoluzionario, ma significa riconoscersi e solidarizzare con individui che vivono le nostre stesse condizioni di sradicamento e sfruttamento ed iniziare ad attaccare una particolare struttura del potere. Non vi è dubbio infatti che la militarizzazione di interi quartieri, i rastrellamenti, i controlli sempre più serrati e le condizioni di vita e di lavoro sempre più odiose che vengono imposte, coinvolgano allo stesso modo sia gli immigrati – regolari o irregolari cambia poco –, sia gli sfruttati locali.

Quando e come è iniziata la lotta

L’istituzione dei CPT (oggi CIE) in Italia ha mutato la destinazione del centro Regina Pacis di San Foca, gestito dalla curia leccese; esso aveva trovato il pieno della sua attività, già un anno prima, in seguito all’arrivo in massa di profughi albanesi. L’edificio era stato utilizzato in precedenza come colonia estiva per bambini, sempre gestita dalla stessa Chiesa, rimanendo poi in stato di abbandono per diversi anni. Questo suo antico utilizzo, spiega il motivo per cui la struttura architettonica di questo centro, fosse molto diversa dalla quella dei CIE di recente costruzione o ristrutturazione, molto più simili a delle carceri vere e proprie. In virtù di ciò il Regina Pacis, ha subìto negli anni, così tante modifiche strutturali da non poter più nascondere la sua reale natura, nonostante lo sforzo dei suoi gestori, dei media e di vari politici, di continuare a spacciarlo per un centro di accoglienza; in continuo aumento sono state infatti le misure di sicurezza, militarizzazione e blindatura dell’edificio.

Lo stato di reclusione di coloro che sono passati dal centro di San Foca, è trapelato man mano all’esterno e questo ha creato sempre maggiore interesse e attenzione verso questo luogo.

Dal 2001 è iniziata così una prima diffusione di materiale di controinformazione teso a spiegare la reale funzione del Regina Pacis e la trasformazione, imposta dal potere economico e statale, del fenomeno migratorio da naturalmente presente sul territorio a fenomeno invasivo da arginare e reprimere. A ciò si sono accompagnate manifestazioni e presidi che hanno visto coinvolte anche altre realtà antagoniste, svolte sia sull’onda degli avvenimenti che riguardavano coloro che vi erano internati (esplosione di malattie contagiose, scioperi della fame, richieste di interventi al fine di non essere rimpatriati in zone di guerra o nelle quali rischiavano la morte, situazione denunciata in primo luogo dai curdi), sia in seguito all’allargarsi della questione a livello nazionale, sia per il verificarsi di vertici o incontri di capi di Stato che avevano come tematica il controllo dei flussi migratori.

Agli inizi del 2002, la diffusione di uno scritto in Italia da parte di alcuni compagni sulla tematica migratoria e la sua configurazione da parte della propaganda razzista, ha offerto lo spunto per l’avvio di una campagna costante e consapevole, che ha riconosciuto sul proprio territorio, ciò che è stato descritto a livello generale. Da allora, i banchetti informativi, i volantinaggi e i manifesti sono diventati uno strumento di primaria importanza, non solo per continuare a smascherare il ruolo di gendarme che il Regina Pacis svolgeva come parte fondamentale di un meccanismo di reclusione ed espulsione degli indesiderati stranieri, ma anche per contrastare la criminalizzazione dello straniero in quanto tale, nonché per spiegare il rapporto strettissimo tra economia e “clandestinizzazione” degli individui, col fine di ottenere ingenti quantità di forza lavoro altamente ricattabile (veri e propri schiavi moderni). Inoltre, essi sono stati strumento utile a levare il velo su quali fossero i reali interessi che muovevano la curia leccese, o in generale i vari enti, a gestire un posto del genere, interessi ovviamente in primis di natura economica, dato che lo Stato paga una cospicua retta giornaliera per ogni immigrato recluso, retta che varia a seconda dei CIE, e che per quello salentino era tra le più elevate. A conferma di ciò, vi è il fatto che la Fondazione Regina Pacis sia diventata negli anni una vera e propria multinazionale della “carità”, aprendo un centro in provincia di Mantova e ben cinque (l’ultimo inaugurato il 7/9/2004) in Moldavia, occupandosi praticamente di tutto, dal “recupero” delle prostitute ai bambini di strada ai profughi. In una intervista il direttore della Fondazione affermava che la Moldavia produceva ogni anno diecimila clandestini, a riprova di quanto essi fossero considerati merce.

Come è proseguita la lotta

I CIE non sono solo chi li gestisce. Per quanto banale, questo è un dato di fatto fondamentale, e se all’apparenza questi luoghi, e ciò che ad essi è collegato sembrano intoccabili ed inattaccabili, in realtà non lo sono, perché sono costituiti da strutture, uomini e mezzi. Questo dato elementare è stato sviluppato mediante la raccolta di informazioni su coloro che collaboravano con esso, aziende o singoli che vendevano la loro opera e i loro servizi, o che erano dipendenti a vario titolo della Fondazione: operatori, impiegati, medici, sbirri, responsabili, elettricisti, imprese fornitrici, e via dicendo. Accanto a tale attività, si è incrementato il numero di presidi di solidarietà sotto le mura del centro, in particolare in seguito all’intensificarsi delle rivolte interne e dei tentativi di evasione, riusciti o meno.

Nel corso del tempo è cresciuto anche il numero di persone coinvolte nella lotta, le azioni dirette e i metodi di critica. Il Salento ha quindi visto l’aumento di banchetti informativi, volantinaggi, attacchinaggi, scritte murali e dei momenti di contestazione in occasione di interventi pubblici dei responsabili del centro, o vertici istituzionali sull’immigrazione; oltre a ciò, anche il verificarsi di anonimi attacchi incendiari, e non solo, ad istituti di credito che gestivano il denaro della Fondazione o ad altre strutture coinvolte a vario titolo con essa.

L’osservazione e lo studio dell’operato svolto dalla curia leccese e dalla Fondazione Regina Pacis, hanno inoltre portato ad identificare delle attività collaterali che, pur se non direttamente correlate al CPT stesso, erano comunque portate avanti dalle stesse persone ed erano un anello della stessa catena, anello che, come nel caso del “Progetto Marta”, permetteva a costoro di darsi una immagine di benefattori, attraverso la raccolta e la distribuzione di cibo a senza casa, poveri e anche immigrati.

L’aspetto meno riuscito della lotta, è stato senza dubbio quello di non riuscire a coinvolgere i maggiori interessati dal problema CPT ed espulsioni, e cioè gli immigrati residenti nel Salento, nonostante alcuni tentativi; ciò è accaduto probabilmente sia per una nostra mancanza di continuità nel cercare rapporti con essi, sia per la loro difficile posizione per cui più facilmente ricattabili e perseguibili dalle forze di polizia.

Finalità della lotta

Chiudere il Regina Pacis. Questo è stato senza dubbio il principale obiettivo, e nonostante alcuni naturali momenti di rilassamento, non vi è stata tregua fino a che ciò non è avvenuto. Non è bastata la repressione manifestata in maniera intensa, attraverso fermi, denunce, cariche durante i presidi, botte ed arresti, a fermare la lotta, anzi; semmai essa ha solo aumentato il livello dello scontro e trascinato la Fondazione Regina Pacis al centro di polemiche sempre più aspre. Verso la fine del 2004 alcuni rappresentanti della curia leccese, diffusero la notizia che dal 2005 la Fondazione non intendesse rinnovare la convenzione con lo Stato italiano come CPT, ma che volesse trasformare la sua struttura in un centro di accoglienza. Al massimo però si poteva parlare di convertire il Regina Pacis in Centro di prima Identificazione, cosa comunque piuttosto strana dato che tali centri sorgevano principalmente in zone di arrivo dei migranti, e la Puglia non lo era più, come affermato anche dal sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano, e che un centro di questo tipo era già presente ad Otranto. In ogni caso i Centri di prima Identificazione, (la nuova legislazione ha cambiato nome e natura di questi centri trasformandoli in centri per richiedenti asilo – CARA), erano anch’essi un ingranaggio del perverso meccanismo che prevedeva la reclusione e la cacciata degli indesiderabili stranieri. Così, mentre molti “oppositori” più o meno istituzionali vantarono il proprio ruolo e la propria figura come fondamentale per la chiusura del Regina Pacis, è necessario affermare che tanti sono stati i motivi. Probabilmente infatti il gioco non valeva più la candela, e i problemi cominciavano a superare gli introiti di chi magari preferiva “investire” ormai lontano; a parte la notevole e costante pressione della lotta che comunque la curia leccese e il Regina Pacis indubbiamente hanno subito, è da considerare anche la cattiva immagine che costoro ormai avevano acquisito, sia per via di un processo in corso a loro carico, per pestaggi ed altro nei confronti di un gruppo di magrebini, sia per le numerose evasioni e rivolte che particolarmente nell’estate del 2004 hanno smascherato meglio di tutto la reale natura del centro e posto il problema dell’esistenza di quella struttura in quel particolare luogo, in una zona di mare ad alta vocazione turistica. Per tale motivo, anche il sindaco del comune su cui sorgeva la struttura era arrivato a chiedere che il CPT fosse spostato da San Foca, anche se certo non per questioni ideologiche o umanitarie. Ad ogni modo, le pressioni sono state tante, ed anche l’ala meno reazionaria della Caritas era contraria al fatto che la curia leccese gestisse un posto simile,

Dal 2003 al 2008, inoltre, è stato realizzato e diffuso un bollettino specifico sul tema delle espulsioni, dal titolo “Tempi di guerra”, frutto dell’incontro tra vari compagni in tutta Italia e che è stato strumento utile di raccolta dati, corrispondenze dalle lotte, approfondimento.

In seguito alla chiusura del Regina Pacis è stato costruito, sempre in Puglia, un nuovo CIE a Bari San Paolo, che sostanzialmente ha rimpiazzato il CPT di San Foca. Anche da questo posto, numerose sono state le fughe e i tentativi di fuga, nonostante la struttura, completamente nuova e sita presso la cittadella della Finanza, sia esattamente un carcere di massima sicurezza.

È insopportabile e intollerabile la presenza di tutti i CPT/CIE, questi moderni lager, la loro tetra invadenza ci spinge ad augurarci la loro totale distruzione e a fare il possibile, concretamente, perché ciò avvenga.

NOTA A MARGINE

Nel marzo 2005 il Regina Pacis ha definitivamente chiuso i battenti. Pochi giorni più tardi il suo direttore, don Cesare Lodeserto è stato arrestato con l’accusa di sequestro di persona a danno di alcune donne immigrate che si trovavano nel CPT per un programma di recupero delle prostitute previsto dalla legge sull’immigrazione. Da allora ha affrontato vari processi, con accuse, tra le altre, di truffa e violenza privata. Così la curia leccese ha pensato di fare di lui un missionario in Moldavia, dove la Fondazione Regina Pacis, gestisce numerosi centri. Per i suoi più acerrimi nemici, lo Stato ha riservato l’accusa di eversione dell’ordine democratico, così alcuni compagni hanno scontato alcuni anni di detenzione preventiva per fatti legati alla lotta contro il Cpt. Dopo la condanna in primo grado per associazione a delinquere e non per terrorismo, come chiedeva l’accusa, è prevista a breve termine la sentenza di secondo grado. Le condanne di primo grado hanno riguardato sei anarchici con pene comprese tra i 4 mesi e i 5 anni di reclusione.

Nemici di ogni frontiera

peggio2008@yahoo.it

ottobre 2009

Posted in Attorno al Cie.

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