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Qualche riflessione in merito al processo di Vincennes

Adesso che la prima fase del processo ai 10 accusati dell’incendio di Vincennes è chiusa, abbiamo sentito il bisogno di scrivere due parole su quanto si è svolto nelle diverse città in merito a questo processo. Non che tutto sia ormai finito, al contrario, ma affinché si faccia qualche riflessione per continuare a lottare contro i centri di detenzione, contro la macchina delle espulsioni… e contro tutto il mondo che li produce.

Una mobilitazione lontano dai tribunali

Per prima cosa, era da tanto tempo che non si vedeva una mobilitazione degna di nota attorno al processo ad un gruppo di ribelli accusati di aver bruciato una galera. A Lione, a Reims, a Strasburgo, a Grenoble, ad Angers, a Marsiglia, a Poitiers, a Bordeaux, a Istres, a Dijon, a Parigi e a Besançon si sono moltiplicate manifestazioni, scritte, dibattiti, fuochi d’artificio, attacchinaggi, striscioni e azioni solidali. Tutto questo per parecchi mesi.
Tutti conosciamo infatti gli inconvenienti di una mobilitazione limitata al solo processo: essa concentra un gruppo di individui per un breve periodo in un luogo ostile e con dei ristretti margini d’azione, coinvolgendo solo coloro a cui piace questo tipo di mobilitazione e coloro che possono recarsi sul luogo in questione (in questo caso, il Palazzo di Giustizia di Parigi). Questa impostazione molto militante finge di ignorare che il tribunale non è che il luogo simbolico del giudizio, della sentenza, confondendo dunque il potere con la sua rappresentazione: in un processo notevolmente politicizzato come questo, non è più il giudice o la sala di tribunale che influenzano il risultato. Al contrario, un processo di questo tipo sottolinea la materializzazione dei rapporti di forza a livello sociale attorno alla questione dei centri di detenzione e delle loro rivolte, e alla questione della reclusione e della solidarietà in generale. Da un altro punto di vista, richiamando unicamente ad un modo passivo e centralizzato di mobilitazione, si tende a far credere che questa sia la buona ricetta per pesare sul verdetto finale (altrimenti, quale sarebbe l’interesse ad assistere allo spettacolo osceno di individui che si fanno fare a pezzi?), negando di conseguenza molti altri modi di agire. La questione della presenza massiccia ad un processo produce troppo spesso un ricatto affettivo, legando strettamente questa mobilitazione alla difesa giuridica degli imputati, una difesa che sempre più spesso è poco contestataria (e in quest’ottica, far casino e protestare in aula potrebbe nuocere agli accusati, come se non fossero il giudice e lo Stato ad avere la responsabilità se questo avviene). Questo ricatto, per fortuna, è durato poco, vista l’assenza da buona parte delle udienze di avvocati e di alcuni presunti incendiari che invece erano presenti i primi giorni. Si è allora potuto constatare una volta di più tutto l’interesse a moltiplicare le iniziative non centralizzate (nelle varie città, ma anche a Parigi), ma sempre collegate le une alle altre.
Un limite frequente, e non tra i meno importanti, risiede generalmente nell’assenza di prospettive concrete di lotta per esprimere la propria solidarietà e la propria rabbia, mentre questa volta è riuscito a crearsi uno spazio di lotta comune, che ha provato non solo la sua pertinenza al processo, ma anche le sue possibilità concrete: disturbare la macchina delle espulsioni. Tutti ricordiamo sicuramente le innumerevoli banche colpite un po’ dappertutto, ma sotto tiro sono finite anche diverse agenzie interinali, la Croce Rossa, Carlson Wagonlit, Bouygues o Air France: serrature manomesse, attacchinaggi e scritte sulle vetrine, incendi, occupazioni, colpi di martello… Se a questo si aggiungono i blocchi stradali durante le “passeggiate parigine”, le manifestazioni del 6 febbraio come a Nantes, quelle verso il centro di detenzione di Canet a Marsiglia, o tutte quelle, a volte anche notturne, che per due mesi hanno percorso le strade di Bordeaux contro la costruzione del Centro locale, c’erano tutti gli ingredienti per creare una mobilitazione che superasse il processo, dandosi degli strumenti pratici per esprimere al di là delle parole la volontà di distruggere i Centri e il mondo di frontiere e di sfruttamento che ne ha bisogno.

La macchina delle espulsioni

La questione relativa alla macchina delle espulsioni non può tuttavia ridursi ad un’ennesima campagna puntuale. Al contrario, essa stessa porta con sé delle possibilità che permettono di uscire dai tradizionali vicoli ciechi legati all’attivismo.
In passato abbiamo già visto svilupparsi, in effetti, delle campagne mirate (contro Ibis o Bouygues, per esempio) che si giustificavano con un dato preciso e puntuale, come la costruzione di nuovi centri di detenzione, e che hanno finito naturalmente per spegnersi da sole. Allo stesso modo, si vedono regolarmente passare nuove ondate di attivismo (attorno a contro-vertici, occupazioni, o a lotte esotiche), cioè delle attività che non solo sono separate dalle altre lotte e da ogni contenuto radicale, ma che soprattutto privilegiano una forma limitante, come lo è essenzialmente qualsiasi “forma” (dal black block dei contro-vertici, alle famose “aperture al quartiere” durante alcuni sgomberi, alle occupazioni o ai presìdi in appoggio a lontani combattenti spesso ambigui).
Non neghiamo che una lotta è per forza una cosa complessa, dal momento che cerca di incontrare altri potenziali complici ma senza rinunciare alle sue basi. In altre parole, la tensione tra l’apertura (con il rischio di perdersi) e la chiusura (con il rischio di isolarsi) è certamente una dialettica permanente. Ciò che al contrario ci sembra qui interessante sottolineare in merito a quello che si è prodotto un po’ dappertutto in questi mesi, è che una molteplicità di forme, senza gerarchia, non soltanto ha giustamente permesso a chiunque di portare il proprio contributo fino alla fine, ma ha anche consentito in diverse occasioni una presa dello spazio pubblico, anche nei momenti più tesi: basti pensare agli arresti e alle perquisizioni di Parigi, che hanno dato lo spunto immediatamente per una manifestazione, per un dibattito pubblico, ma anche per gesti autonomi di solidarietà. L’agitazione non è mai stata limitata a qualche specialista in carenza di azione, e neanche alle solite avanguardie che non han mai abbastanza truppe al proprio fianco.

Infine, e al contrario delle campagne che spesso si rivolgono al nemico per domandargli di rinunciare a qualche specifica pretesa, l’agitazione attorno al processo di Vincennes e contro la macchina delle espulsioni si è rivolta a tutti. Al posto di scegliere come interlocutori il potere o i media – vale a dire piuttosto che riprodurre le mediazioni che danno forma a questo sistema mortifero – si sono susseguite le manifestazioni nei quartieri, gli attacchinaggi, gli adesivi e le scritte che han coperto i muri e le vetrine, e che parlavano di distributori sabotati giusto vicino a loro, e ancora i dibattiti, tutto ha portato così un discorso diverso, senza filtri né concessioni. Un discorso rivolto direttamente alla strada, e non ai soliti ambienti di gente già convinta.

Libertà per tutti, con o senza documenti.

Una delle stramberie ricorrenti nei discorsi correnti, se si mette da parte l’incapacità di esporre le proprie idee (e l’amara sensazione che a tenerci insieme sia più una vaga contro-cultura alternativa che delle idee), è di pensare che se si è soli si è necessariamente isolati. Di credere dunque che le nostre idee e la nostra critica siano così strane e fuori contesto da non poter essere comprese da nessuno. Tutto ciò lo si può comprendere bene pensando tanto alla scritta “fuoco a tutte le prigioni” (ed è vero: le galere non bruciano mai, e poi così poca gente ha l’occasione di frequentarle, da lontano o da vicino), quanto al manifesto che spiega come una banca consegni dei clandestini alla polizia (ed è vero: a tutti piacciono le banche e la polizia). Tuttavia, ed è proprio questa una delle ragioni per intervenire nello spazio pubblico, il mondo non è costituito solo di schiavi e di cittadini. Se la nostra posizione è minoritaria – perché negarlo? -, la potenzialità della mobilitazione è quindi quella di spostarsi verso ciò che non è conosciuto, di incontrare delle persone complici lungo il cammino, di provocare delle reazioni e delle discussioni.
In questo senso, e al contrario dell’eterna tendenza che insiste per adattare il proprio discorso limitandolo affinché “le persone” (in senso astratto) possano capirlo, la critica che si è sviluppata in questi ultimi mesi ha tratto forza dal fatto di non indietreggiare, e dal fatto di ritrovare anche attraverso le forme utilizzate un inizio di coerenza con il proprio contenuto. Se non si mira a rendere più umani i centri di detenzione, ma a distruggerli, se ci si rifiuta di negoziare delle buone categorie di gente espellibile, cosa c’è allora di strano se degli sconosciuti condividono questa prospettiva e se bruciano dei bancomat di banche che fanno espellere dei sans-papiers?

Attaccando tanto lo Stato (contro le frontiere, per la libertà di circolazione), quanto il Capitale (contro lo sfruttamento e gli ingranaggi che si arricchiscono sulla macchina delle espulsioni), questa mobilitazione è riuscita non solo a non fermarsi davanti ai limiti propri ad ogni campagna o altro ambito di attivismo (lo sfinimento dovuto ai pochi risultati visibili, la sparizione/ristrutturazione della misura contestata, il “tradimento” dell’oggetto sostenuto), ma ha soprattutto aperto una via inserendosi nel quotidiano (i differenti ingranaggi li si incrocia ad ogni angolo di strada) e senza soggetto esterno specifico (il tizio incappato in una retata, il recluso, il lavoratore senza-documenti in sciopero). Insomma, una possibilità di lotta comune per tutti, al di là delle separazioni proprie del dominio, con un’aspirazione espressa bene da uno degli slogan venuto fuori in questi ultimi mesi: “Libertà per tutti, con o senza documenti”.

Questione di prospettiva.

Rifiutando un miserabile sostegno agli imputati di Vincennes – vittime arbitrariamente immolate che hanno la virtù di procurare un “supplemento d’anima” extra ai propri sostenitori – in favore di una solidarietà con, un primo passo importante era stato fatto lungo tutti i mesi precedenti al processo. Ciò ha immediatamente permesso a ciascuno di esprimersi a nome suo, a partire dalla sua propria condizione nella guerra sociale, senza più legarsi a particolarità degli imputati, e insistendo di più su quello di cui essi erano accusati (l’incendio di una prigione per stranieri). Superando poi la questione specifica del processo e delle sue date per inserire questa solidarietà in una prospettiva combattiva contro i centri di detenzione e poi contro la macchina delle espulsioni di cui questi ultimi fan parte, l’aria che mancava ad una miscela potenzialmente esplosiva alla fine ha cominciato a circolare. Essa ha offerto a molti, conosciuti o meno, la possibilità di sviluppare un contenuto legato a quello che è il nocciolo della contestazione: l’abbattimento del dominio e dello sfruttamento.

Ambizioso ma preciso, è questo contenuto di per se stesso a poter sfociare in una prospettiva anti-autoritaria. Invece che passare da un tema di lotta ad un altro, come ci suggerisce spesso il riflesso condizionato da attivisti (*), questa critica potrebbe al contrario inscriversi in una continuità (altri Centri sono in costruzione, la durata del trattenimento dovrebbe prolungarsi a 45 giorni, le frontiere esterne e interne si moltiplicano, come succede con i rilevatori di documenti falsificati negli uffici di collocamento), collegando tra loro i diversi aspetti della prigione sociale. E, lontano dal feticismo delle forme (per esempio quelle che si misurano solamente rispetto alla loro dimensione collettiva o a partire dal loro aspetto più o meno spettacolare), questa critica potrebbe ugualmente continuare approfondendo il suo contenuto reale, un perché che supera largamente la solidarietà anti-carceraria.

Quello che resta da questi mesi di mobilitazioni, la dinamica che si è creata al di là della questione del processo, è molto chiaro nei rapporti tra tutti quelli che han portato il proprio contributo. Ma è anche in questo metodo che si è affinato poco per volta, frantumando nello stesso tempo gli spettri dell’impotenza (come affrontare il mostro che abbiamo davanti?), dell’abitudine (andare esclusivamente vicino ai luoghi di potere, nei tribunali o sotto i muri delle prigioni, piuttosto che prendersi la strada, di giorno come di notte), della militanza (ridurre il mondo in due categorie: “loro”, i cattivi che reprimono, e “noi”, le loro vittime e individui solidali, piuttosto che affrontare una dimensione sociale anche basata su un meccanismo di partecipazione e di integrazione) e del quantitativo (non si può far niente se non si è in “tanti”, mentre il numero è una felice conseguenza frutto di incontri complici, ma non obbligatoriamente un inizio necessario per cominciare a lottare).
Un metodo semplice, certo, ma che porta già in sé un assaggio del mondo per il quale ci battiamo, e che può soprattutto servire come strumento più generale al servizio di una prospettiva combattiva che se la prenda con tutti gli aspetti del dominio (**).

Rispondendosi gli uni con gli altri, i diversi attacchi hanno mostrato un po’ dappertutto che il nemico non è intoccabile, che ha anche dei nomi e degli indirizzi. E anche se si crede di essere isolati nel proprio contesto, altri possono raccogliere il testimone e alzare la voce della solidarietà un po’ più lontano.
Infine, moltiplicandosi, le attività che si sono svolte in questi mesi di mobilitazione hanno anche mostrato attraverso la loro diversità che la forza è prima di tutto sociale. Che avendo la combinazione di tutti gli ingredienti senza centralizzazione né formalizzazione, con la penna come con il fuoco, con la voce come con i piedi, aumentano le possibilità di interrompere il corso della normalità e della pacificazione.

Bisogna raccogliere con cura quello che questo periodo può insegnarci, e continuare a far tesoro di questi passi maldestri, approfondendoli. Contro i centri di detenzione e tutte le forme di prigionia, contro la macchina delle espulsioni e tutti gli avvoltoi che ci mangiano la vita quotidianamente, per la libertà, con o senza documenti.

Anatole, 20 marzo 2010

(*) Per esempio la triste iniziativa del collettivo “Stop expulsions”, che il 24 marzo ha lanciato una campagna per “la fine della complicità di Air France con l’espulsione dei clandestini” fino all’8 luglio 2010, giorno del voto degli azionisti al suo Consiglio di amministrazione. Campagna cittadinista che si propone, ben inteso, di “fare ricorso ai giornalisti” e la cui “linea direttrice” precisa che è “fondamentale restare nell’ambito della non-violenza”.

(**) Per fare anche solo un esempio, lo sfruttamento – che è uno dei nodi della questione toccata qui – non è riducibile ai soli padroni (le multinazionali delle costruzioni e del lavoro interinale così come le mafie comunitarie illegali e i piccoli commercianti immigrati) e ai loro alleati (i cogestionari della manodopera, così come i sindacati o le autorità religiose). Come rapporto sociale lo sfruttamento si basa allo stesso modo sulla merce e sulla servitù volontaria, sfociando in compromessi in materia di pace sociale e di interessi condivisi tra sfruttatori e sfruttati. Compromessi e interessi che bisogna cercare di stroncare.

Fonte: Etrangers de partout, bollettino contro i centri di detenzione. L’articolo originale in francese è disponibile qui.

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